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“Ho caricato la lavastoviglie, lavato a mano i bicchieri belli, riposto gli avanzi in frigo. E questo è il minimo sindacale. Ho anche lustrato i fornelli, svuotato lo scolapiatti, passato la spugnetta su marmi e piastrelle e, dopo aver accuratamente scopato, lavato per terra. E adesso, appoggiata allo stipite della porta, guardo la cucina illuminata solo dalla luce fioca sul fornello, e penso a Noemi, e a sua mamma, che diceva ogni tanto: “Ah, che soddisfazione quando la cucina è tutta a posto. Peccato che duri così poco!”
Ti capisco, Clelia Pontini mamma di Noemi Pontini, ti capisco adesso, in questo momento, appoggiata allo stipite della porta, mentre guardo questa cucina immacolata e provo un sentimento che non so definire. Gioia e struggimento insieme. Gistruggimento?
È una piccola felicità intima, intima come certe canzoni, come l’odore dei bambini piccoli o mettersi i calzini al mattino presto…
Lo sguardo scivola sul pavimento immacolato, gli spigoli dei pensili, il lavandino scintillante, neanche un bicchiere o un cucchiaino macchiato di nutella in giro, gli strofinacci appesi ai ganci, le tende bianche coi ricami al centro. Perfetta. È la mia cucina, ed è bella. Lo so, è una bellezza effimera e fuggitiva come quella di una rosa o di un fiocco di neve. Basta che uno di quelli di lá voglia un altro caffè, ed è fatta. Al massimo questa bellezza pacata durerà fino a domattina, poi la colazione la violerà con le briciole delle biscottate, le tazze sporche, le macchie di caffè sul fornello, perché non riesco mai a spegnere la moka prima che schizzi.
Ma adesso posso guardarla e riguardarla, e fissare l’incanto prima che sfiorisca o si sciolga. Mi sento in pace, ho pulito la cucina, un gesto inutile, ripetitivo, addirittura un po’ esagerato, perché lo Smac sui fornelli è stato un barocchismo, lo so.”

Stefania Bertola “Le cure della casa” Einaudi

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“Room Portraits” di Menno Aden

Non c’é posto al mondo che io ami più della cucina. Non importa dove si trova, com’é fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene. Se possibile le preferisco funzionali e vissute. Magari con tantissimi strofinacci asciutti e puliti e le piastrelle bianche che scintillano. Anche le cucine incredibilmente sporche mi piacciono da morire. Mi piacciono col pavimento disseminato di pezzettini di verdura, così sporche che la suola delle pantofole diventi subito nera, e grandi, di una grandezza esagerata. Con un frigo enorme pieno di provviste che basterebbero tranquillamente per un intero inverno, un frigo imponente, al cui grande sportello metallico potermi appoggiare. E se per caso alzo gli occhi dal fornello schizzato di grasso o dai coltelli un po’ arrugginiti, fuori le stelle che splendono tristi. Siamo rimaste solo io e la cucina. mi sembra un po’ meglio che pensare che sono rimasta proprio sola. Nei momenti in cui sono molto stanca, mi succede spesso di fantasticare. Penso che quando verrà il momento di morire, vorrei che fosse in cucina. Che io mi trovi da sola in posto freddo, o caldo insieme a qualcuno, mi piacerebbe poterlo affrontare senza paura. Magari fosse in cucina!

Banana Yoshimoto “Kitchen”

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di Afra Bacci

“Le cose esistono. Sono voci della terra che respirano. Entrano in me respirando.” Ugo Marano

di Clare Gallagher

A Neauphle-le-Chateau, nella casa di campagna, avevo fatto una lista di quello che bisognava avere sempre in casa. Erano press’a poco venticinque voci. La lista c’é ancora, l’hanno conservata perché l’avevo scritta io. Ecco la lista:

sale fino     cipolle      nooc màm       candeggina

pepe        aglio        pane      detersivo per bucato a mano

zucchero      latte         formaggi        spugnette

caffé        burro         yogurt         Ajax

vino       té        detersivo in polvere

patate       farina       carta igienica        pagliette

pasta       uova          lampadine        filtri di carta per il caffé

riso        pelati       sapone di Marsiglia

olio       sale grosso      scotch brite     fusibili

aceto         nescafé         nastro isolante

La lista é ancora attaccata al muro. Non é stato aggiunto nessun altro prodotto oltre a quelli. Nessuno dei cinquecento o seicento nuovi prodotti che sono stati inventati dopo la stesura di quell’elenco, nel corso di venti anni, é mai stato adottato.

L’ordine esterno e l’ordine interno della casa. L’ordine esterno, cioé l’assetto visibile della casa, e l’ordine interno che é quello delle idee, dei livelli sentimentali, dell’eternità di sentimenti verso i figli. Una casa come la concepiva mia madre, era per noi, in realtà. Non penso che avrebbe fatto lo stesso per un uomo né per un amante. E’ un’attività che gli uomini ignorano completamente. Possono costruire case, ma non crearle. La donna é il focolare. Lo era. Lo é ancora.

Marguerite Duras “La vita materiale” – Feltrinelli 1988

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La casa dei sogni è attorniata di alberi e prati (…) e bisogna essere proprietario; tuttavia gli americani la abitano raramente per più di cinque anni. Non si tratta di un bisogno reale ma di un simbolo. Questo simbolo implica un’abitazione isolata e non una serie di abitazioni e l’ideale di casa è estetico non funzionale (…) Il simbolo non è necessariamente buono o ragionevole in termini di utilità, ed infatti  stato criticato, ma è reale e rappresenta una concezione del mondo ed un’etica”

Amos Rapoport, House Form and Culture, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, N.J., 1969, pp.183-184.