il convegno Abitare la Cura e il progetto BeHome di Lilli Bacci

Questa giornata deve il suo titolo –Abitare la cura– al libro curato dal prof. Sergio Marsicano edito da Franco Angeli. Ci è sembrato che potesse immediatamente spiegare il senso di questa riflessione comune.

Ci  piace infatti considerare qui l’abitare in sintonia con quanto espresso dal filosofo Martin Heidegger nella famosa conferenza del 1951 “Costruire, Abitare, Pensare” nell’ambito di un convegno di architettura a cui partecipò.

In estrema e banale sintesi (sollecito la lettura di studiosi che con maggior titolo di me trattano questi temi con competenza come Silvano Petrosino), giocando con il collegamento delle parole tedesche “casa” e “aver cura”, per Heidegger l’abitare può essere considerato una metafora dell’aver-cura. In più questo abitare lo si colloca oggi nelle istituzioni di cura sebbene il luogo abitato per eccellenza sia la casa.

«Molte istituzioni anche pubbliche si chiamano casa di cura, casa di riposo, casa di salute…» – qui cito le parole testuali di Ida Farè, che è stata docente di Architettura al Politecnico di Milano – «come se la parola originaria che esprime l’essenza dell’abitare potesse riscattare, almeno in parte, l’inevitabile limitazione del sé che comporta la vita in ospedale. Il nome casa che si sposta verso i luoghi della cura traduce un bisogno reale e nel verso contrario restituisce una illusione, un desiderata: sarai come a casa tua, questa è una specie di casa. (…) Si può dunque abitare una casa e si può anche abitare un ospedale, ma per quanto riguarda abitare l’ospedale si vive come in un altro mondo: camere asettiche, arredi gelidi e metallici, mobili immobili, finestre che non si aprono, bagni senza specchio, squallide stanze di attesa con quelle seggioline di plastica in fila lungo le pareti, dove ogni visitatore siede come messo al muro e dalle quali in cuor suo spera di allontanarsi al più presto. Insomma pare proprio che lo spazio sia la cenerentola dei luoghi di cura e che l’architettura sia una parente lontana e sconosciuta nei luoghi di malattia.»

E’ quello che fa dire a Margherita Hack che rifiuta il ricovero:

«Vivrò meno, ma più felice. Mi sono resa conto che mi sarebbero mancati la mia attività, mio marito, i miei animali e tutte quelle comodità, privacy compresa, che in ospedale non ci sono. Una vita a metà. Qui a casa, magari al rallentatore, faccio le cose normali.».

Eppure, se guardiamo, fin dal 1860 c’era una attenzione in questo senso: Florence Nightingale, fondatrice della moderna assistenza infermieristica nel suo “Note sulla Cura” dedica un intero capitolo al letto d’ospedale che deve essere basso, di ferro, scostato dal muro da entrambi i lati, e non lontano dalla finestra in modo che il malato possa vedere fuori.

Un altro capitolo parla della luce, di quale sia l’esposizione migliore, e che si lasci entrare il sole. Scrive: «Una leggera cortina bianca al capezzale e alla finestra una stuoia verde che si possa calare a volontà sono più che sufficienti perché dove è il sole là è il pensiero.» Interessante è anche che nei suoi consigli le infermiere sono responsabili non solo del malato ma della camera, essenziale al suo comfort. «Il convalescente passerà qualche ora in poltrona vicino al camino, non lontano dalla finestra. La vista dell’orizzonte, dei giardini e degli alberi rinfrancherà la sua mente e scaccerà le preoccupazioni che lo rattristano.»

Simone de Beauvoir nel suo libro Una morte dolcissima racconta l’esperienza del ricovero in ospedale della madre dapprima per una caduta poi per un tumore fino alla sua morte «In una fedele cronaca, clinica e psicologica insieme, -dice la storica Michelle Perrot nel libro “Storia delle Camere”- la scrittrice pur mai privilegiando la descrizione degli spazi ne segue attentamente la trasformazione: l’effetto è sconvolgente.» L’inizio è una clinica di cui vanta i pregi per la tranquillità, la finestra con vista sul giardino e le cure che la mettono di buonumore e la fanno sentire importante, dove riceve visite e regali, dove la camera è piena di fiori: ciclamini, azalee, rose, anemoni, dove il comodino è carico di scatole con gelatine di frutta, cioccolatini, caramelle, lei scopre il piacere di essere curata, servita, anche vezzeggiata tanto da non sopportare l’idea di dover tornare a casa. La situazione poi si evolve. Una serie di analisi rivela la presenza di un tumore. Il letto, che prima era vicino alla finestra, riprende la sua posizione normale al centro della stanza, con la testiera appoggiata al muro ed entrambi i lati liberi. Poi si decide di operare. Sulla porta della camera compare un cartello: ”non sono ammesse visite”. I dolciumi sono stati riposti nell’armadio insieme ai libri. Sul grande tavolo d’angolo niente più fiori ma bocce di vetro, flaconi, provette. Alla malata hanno tolto tutti gli indumenti. Il corpo viene denudato come la camera, della quale Simone fornisce una descrizione precisa, quasi volesse fissarne l’immagine nella memoria, queste sono le sue parole: “Dietro la porta c’è un tubo piuttosto corto; a sinistra la stanza da bagno con la padella, il ‘fagiolo’, del cotone idrofilo, dei recipienti; a destra un armadietto dove sono stati messi gli oggetti personali della mamma: da una stampella pende la sua vestaglia rossa, tutta impolverata.” E conclude: “prima attraversavo quei luoghi senza vederli. Adesso so che faranno parte della mia vita sempre”.»

Succede così. Anche per me è stato in questo modo. La mia esperienza vissuta come parente di un ammalato, insieme alla mia storia personale legata a quello che chiamo il sentimento dell’abitare mi hanno portato al progetto che ho intitolato BeHome (un modo diverso di dire “sentirsi a casa” che è stato l’argomento della mia tesi e che resta l’argomento della mia continua ricerca). Può sembrare un argomento non particolarmente originale o creativo, può sembrare la cosiddetta “scoperta dell’acqua calda”, ma metterlo nero su bianco con la volontà molto precisa di sperimentarlo e attuarlo mi ha portato ad essere qui ora.

Di questo ringrazio tantissimo la Regione Toscana col suo Presidente Enrico Rossi e la dottoressa Maria Teresa Mechi che mi hanno dato questa meravigliosa opportunità e ancor di più perché sono consapevole di essere una vera e propria outsider in questo contesto, cosa che rivendico come aspetto positivo: non sono un architetto progettista, non sono un medico, una psicoterapeuta o una figura sanitaria, non sono un politico. Sono una interior stylist, una “arredatrice” che un amico antropologo ha definito con mio grande godimento “stilista interiore”: mi interessa la casa, o meglio lo spazio vissuto della casa o di altri luoghi abitati che sempre ho osservato e osservo con attenta curiosità, rispetto e passione.

Sono profondamente attratta dal luogo abitato e dai suoi oggetti  e questa attrazione non ha niente a che vedere con l’aspetto estetico che pure potrebbe derivare dal mio lavoro. E’ la rivelazione di chi abita questo luogo  attraverso le cose che mi affascina e mi rapisce, essendo questa “rivelazione” psicologica, culturale, antropologica e sociale. Mi piace appunto parlare di  “sentimento dell’abitare” come ciò che ha sempre messo in movimento il mio lavoro con un percorso tra le tracce umane negli spazi abitati (Benjamin dice che “Abitare significa lasciar tracce”per me è una specie di mantra).

La mia ricerca in realtà non si conclude mai. Posso solo dire che il comune denominatore degli spazi osservati  sta nel mio vivere, quasi come una etnografa, un incontro empatico con gli spazi abitati da altri.

Attraverso la mia osservazione ho verificato come qualsiasi spazio venga “contaminato”, influenzato, “tracciato” da colui che lo vive anche solo per un tempo limitato, come un bisogno – che viene dal profondo – di segnare il proprio territorio,  sia esso il tavolo dell’ufficio o il letto dell’ospedale. Frequentando le strutture ospedaliere ho notato -come tutti- che (e cito nuovamente Ida Farè) «proprio quando il corpo è fragile e bisognoso, tutto ciò che fa sentire bene e a nostro agio dentro lo spazio della casa viene totalmente dimenticato e come la vita dei pazienti sia determinata esclusivamente dalle logiche dettate dalla terapia in spazi sgombri, freddi, a volte abbandonati e comunque organizzati soprattutto in funzione delle attività di lavoro del personale medico.»

Credo fermamente che poche esperienze di vita siano significative per l’esistenza quanto l’abitare, credo che Casa significhi tracce, cura, atto magico, spazio “desiderato”, una vera risorsa che permette di ancorarsi a situazioni piacevoli, ricordi ma anche nuovi stimoli e quindi nuove opportunità, credo che Casa  sia – in sostanza – il mantenimento della propria identità, che lo spazio vissuto non sia una scatola vuota e che abitare non significhi semplicemente “stare in un luogo”, ma anche costruire delle relazioni significative, dei rapporti con persone ed oggetti (in genere gli oggetti che l’abitazione contiene e custodisce sono le cose che si amano e che si sono scelte) che però, evidentemente, sembrano incompatibili con la coatta esperienza ospedaliera.

Un’altra definizione, che condivido profondamente, è quella di Umberto Galimberti nel suo Il corpo: «Abitare non è conoscere, è sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra le cose che dicono il nostro vissuto, tra volti che non c’e’ bisogno di riconoscere perche’ nel loro sguardo ci sono le tracce dell’ultimo congedo. Abitare è sapere dove deporre l’abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l’altro etc.(…)».

Per raccontarvi brevemente il progetto BeHome partirò dall’ovvia considerazione che molti ospedali non possono mantenere lo stato attuale di obsolescenza e neppure possono ignorare l’importanza di un ambiente idoneo di guarigione. La caratteristica principale del progetto sta proprio nella consapevolezza della cronica ma oggettiva mancanza di fondi e nella conoscenza di semplici accorgimenti e attenzioni per cui l’atmosfera può essere notevolmente migliorata: quello che viene proposto si può basare su donazioni da parte di aziende e sulla sensibilizzazione e preparazione del personale che opera all’interno della struttura.

Si tratta dunque di applicare alcune basilari conoscenze psicologiche, antropologiche, sociologiche, estetiche  nonchè semplici accorgimenti di arredamento, nelle istituzioni di cura dedicate al benessere di chi è costretto a soggiornarvi… non facendo progetti inapplicabili bensì semplicemente cominciando da piccole ma significative cose come prevedere una “nicchia” con dei propri oggetti, foto, tende, copriletti, libri, lampade soft, fiori; allestire lo spazio trasferendovi il calore delle emozioni; ritrovare angoli con qualcosa di significativo a livello personale; (come dice Elaine Poggi che sentiremo stasera sulla sua esperienza bellissima) “posare lo sguardo su un punto di bellezza nel vuoto angoscioso del luogo ospedaliero”.

Non propongo alcun progetto ex novo, alcuna costruzione ma propongo di intervenire proprio SUI LIMITI e CON I LIMITI : per dirla con Petrosino che parlerà dopo di me, non edificare ma abitare, non costruire ma custodire!

La volontà è quella di offrire una consulenza, creare un presidio  che analizzi la situazione e gli interventi minimi per trasformare lo spazio del dolore in spazio di possibile benessere emotivo (con l’aiuto di aziende del settore del mobile e dell’oggettistica&accessori). In sintesi, umanizzare le strutture ospedaliere non solo attraverso l’offerta di suppellettili utili a questo scopo ma anche – fondamentale – attraverso l’analisi dello spazio e la continua manutenzione da parte degli operatori per una consapevolezza costante del luogo e degli effetti benefici che può offrire a tutti (ricoverati, loro familiari e operatori stessi). Le persone ricoverate in un ospedale sono sotto stress, provano dolore e paura, vivono l’esperienza di ore di solitudine che sembrano infinite mentre la struttura ospedaliera in genere è fredda, non curata, deprimente. Si tratta perciò di cambiare l’atmosfera!, alleviare lo stress e l’ansia del paziente e incoraggiare la guarigione attraverso l’armonizzazione dello spazio.

Volendo, il progetto è pronto per essere attuato con una precisa strategia:

  • promuovendo una parte sperimentale;
  • intervenendo su una serie di strutture ospedaliere da individuare su base regionale ma  ampliabile su quella nazionale;
  • individuando imprese di arredamento, oggettistica, ecc. che siano disponibili ad offrire, adattare se necessario piccoli mobili, complementi, oggetti specifici per “arredare” l’habitat;
  • costituendo una catena di solidarietà che consenta interventi in strutture ospedaliere organizzando il supporto di uno staff multidisciplinare composto da medici, psicologi, psicoterapeuti, architetti, sociologi e antropologi per sviluppare le ricerche, le analisi, l’attuazione, la formazione degli operatori su questo tema insieme alla creazione di un network dove siano ampliate queste tematiche per lo scambio di esperienze e di opinioni, con iniziative editoriali, progetti formativi, incontri, per favorire il dialogo e la condivisione di conoscenze ed esperienze tra gli attori del settore (come oggi!);
  • promuovendo la formazione e sensibilizzazione del personale sanitario;
  • verificando il livello di gradimento dei degenti sugli interventi di armonizzazione dello spazio e il loro miglioramento nella cura;
  • valutando i costi per un risultato efficace;
  • anche costituendo, infine, se necessario, un’impresa che coordini e realizzi questi interventi;

Si tratta quindi di individuare le strutture dove proporre la sperimentazione e di contattare i responsabili sanitari del reparto per spiegar loro il progetto nei dettagli. Con la loro autorizzazione saranno immediatamente realizzate le interviste ai ricoverati del reparto che verranno analizzate dai tutors del progetto (ovvero il gruppo dei professionisti già precedentemente coinvolti nell’ambito della medicina, psichiatria, sociologia, antropologia, architettura e assistenza sanitaria).

In base alle risposte e alle ricerche già consultate si procederà acquistando o chiedendo in prestito o in offerta il materiale necessario all’allestimento sperimentale delle stanze, individuate come gli spazi della sperimentazione (sia per la disponibilità del ricoverato che per le caratteristiche della stanza).

Una volta allestiti questi spazi saranno fatti monitoraggi settimanali che riguarderanno sia i pazienti che il personale sanitario per verificare la manutenzione dello spazio. Dopo un periodo di tempo (stabilito dal gruppo dei tutors) saranno realizzate interviste di verifica dell’intervento.

Sono previsti  colloqui formativi  prima, durante e dopo l’intervento  con il personale sanitario del reparto che vertano sulla sensibilizzazione al concetto di casa, di abitare e di spazio umanizzato; sulla organizzazione degli spazi dove si realizzano le differenti cure quindi anche quello della stanza di ricovero; sull’attenzione agli aspetti medico-sociali, psicologici, giuridici, architettonici e mi piace dire anche poetici rispetto alla condizione di ricovero; su una riflessione sulla drammaticità esistenziale della malattia e la sua capacità di incidere negativamente anche sull’utilizzazione quotidiana dello spazio; sull’attenzione alla necessità di una manutenzione quotidiana dello spazio; infine sulla conoscenza delle diverse esperienze in materia sia nazionali che internazionali: saranno invitati ad esporre l’esperienza i diversi protagonisti.

Voglio ringraziare pubblicamente un persona a me molto cara, Giampaolo Pacini, grande consulente di strategia d’impresa e grande amico che mi ha aiutato fin da quando il progetto era in embrione a redigerlo con metodo.

Oggi è solo l’inizio, con oggi cominciamo. Sicuramente oggi mancheranno realtà importantissime e significative e me ne scuso fin da ora pregandovi anzi di segnalarcele. Volutamente però in questa fase non è stato invitato ad esporre la propria esperienza nessuno della psichiatria e della pediatria: settori assolutamente fondamentali – intendiamoci – dai quali si può dire che l’umanizzazione sia partita.

Il desiderio era però quello di dare la parola agli ospedali in cui queste esperienze sono considerate meno importanti perché è la terapia che deve prevalere.

Consentitemi di dedicare tutto questo lavoro, questa giornata e spero quello che ne seguirà, alla mia adorata amatissima amica Sabrina Grifeo che ho perduto nel dicembre scorso dopo tre mesi di una malattia devastante. Uno degli ultimi messaggi che mi ha scritto da una clinica di queste  alternative in Germania dove era andata per tentare di rigenerarsi in vista della chemioterapia che doveva affrontare, mi diceva: “ti manderò qualche foto di ambienti medici alternativi per la tua ricerca” … e ho il ricordo bellissimo di quando, riflettendo insieme a lei sul senso di Casa, ho posto sul cuore le parole di Silvano Petrosino: « Se esiste una casa, è il luogo dove l’uomo possa vivere senza vergogna e senza censure, un luogo dove la sofferenza resta sofferenza, dove il difetto resta difetto, la paura resta paura, ma tutte queste cose sono ospitate, non sono più negate. Un luogo pacifico dove si è accolti.» Mi piace pensare che il luogo della Cura diventi Casa che accoglie tutti.