“In cucina c’era un uomo molto alto, vestito in un modo che Maria non aveva mai visto prima. Aveva in testa una barchetta fatta con un giornale, fumava la pipa e dipingeva l’armadio di bianco.
Era incomprensibile come tutto quel bianco potesse stare in una scatoletta così piccola, e Maria moriva dal desiderio di andare a guardarci dentro. L’uomo ogni tanto posava la pipa sull’armadio stesso, e fischiava; poi smetteva di fischiare e cominciava a cantare; ogni tanto faceva due passi indietro e chiudeva un occhio, e andava anche qualche volta a sputare nella pattumiera e poi si strofinava la bocca col rovescio della mano. Faceva insomma tante cose così strane e nuove che era interessantissimo starlo a guardare: e quando l’armadio fu bianco, raccolse la scatola e molti giornali che erano per terra e portò tutto accanto alla credenza e incominciò a dipingere anche quella.
L’armadio era così lucido, pulito e bianco che era quasi indispensabile toccarlo. Maria si avvicinò all’armadio, ma l’uomo se ne accorse e disse: – Non toccare. Non devi toccare. Maria si arrestò interdetta e chiese: – Perché? – al che l’uomo rispose: – Perché non bisogna -. Maria ci pensò sopra, poi chiese ancora: – Perché è così bianco? – Anche l’uomo pensò un poco, come se la domanda gli sembrasse difficile, e poi disse con voce profonda: – Perché è titanio.
Maria si sentì percorrere da un delizioso brivido di paura, come quando nelle fiabe arriva l’orco, guardò con attenzione, e constatò che l’uomo non aveva coltelli, né in mano né intorno a sé: poteva però averne uno nascosto. Allora domandò: – Mi tagli che cosa? – e a questo punto avrebbe dovuto rispondere: “Ti taglio la lingua”. Invece disse soltanto: – Non ti taglio, titanio.
In conclusione, doveva essere un uomo molto potente: tuttavia non pareva in collera, anzi piuttosto buono e amichevole, Maria gli chiese: – Signore, come ti chiami? – Lui rispose: – Mi chiamo Felice -; non si era tolto la pipa di bocca, e quando parlava la pipa ballava su e giù eppure non cadeva. Maria stette un po’ di tempo in silenzio, guardando alternativamente l’uomo e l’armadio. Non era per nulla soddisfatta di quella risposta ed avrebbe voluto domandare perché si chiamava Felice, ma poi non osò, perché si ricordava che i bambini non devono mai chiedere perché. La sua amica Alice si chiamava Alice ed era una bambina, ed era veramente strano che si potesse chiamare Felice un uomo grande come quello. Ma a poco a poco incominciò invece a sembrarle naturale che quell’uomo si chiamasse Felice, e le parve anzi che non avrebbe potuto chiamarsi in nessun altro modo.
L’armadio dipinto era talmente bianco che in confronto tutto il resto della cucina sembrava giallo e sporco. Maria giudicò che non ci fosse nulla di male nell’andarlo a vedere da vicino: solo vedere senza toccare. Ma mentre si avvicinava in punta di piedi avvenne un fatto imprevisto e terribile: l’uomo si voltò, con due passi le fu vicino; trasse di tasca un gesso bianco, e disegnò sul pavimento un cerchio intorno a Maria. Poi disse: – Non devi uscire di lì dentro. – Dopo di che strofinò un fiammifero accese la pipa facendo colla bocca molte smorfie strane, e si rimise a verniciare la credenza.
Maria sedette sui calcagni e considerò a lungo il cerchio con attenzione: ma dovette convincersi che non c’era nessuna uscita. Provò a fregarlo in un punto con un dito, e constatò che realmente la traccia di gesso spariva; ma si rendeva benissimo conto che l’uomo non avrebbe ritenuto valido quel sistema.
Il cerchio era palesemente magico. Maria sedette per terra zitta e tranquilla; ogni tanto provava a spingersi fino a toccare il cerchio con la punta dei piedi e si sporgeva in avanti fino quasi a perdere l’equilibrio, ma vide ben presto che mancava ancora un buon palmo a che potesse raggiungere l’armadio o la parete con le dita. Allora stette a contemplare come a poco a poco anche la credenza, le sedie e il tavolo diventavano belli e bianchi.
Dopo moltissimo tempo l’uomo ripose il pennello e lo scatolino e si tolse la barchetta di giornale dal capo, ed allora si vide che aveva i capelli come tutti gli altri uomini. Poi uscì dalla parte del balcone, e Maria lo udì tramestare e camminare su e giù nella stanza accanto. Maria cominciò a chiamare: – Signore! – dapprima sottovoce, poi più forte, ma non troppo, perché in fondo aveva paura che l’uomo sentisse.
Finalmente l’uomo ritornò in cucina. Maria chiese: – Signore, adesso posso uscire? – L’uomo guardò in giù a Maria e al cerchio, rise forte e disse molte cose che non si capivano, ma non pareva che fosse arrabbiato. Infine disse: – Sì, si capisce, adesso puoi uscire -. Maria lo guardava perplessa e non si muoveva: allora l’uomo prese uno straccio e cancellò il cerchio ben bene, per disfare l’incantesimo. Quando il cerchio fu sparito Maria si alzò e se ne andò saltellando, e si sentiva molto contenta e soddisfatta.

Quanto al colore bianco, Primo Levi, che era un chimico, lo spiega bene in una nota a questo racconto: “Il biossido di titanio è il più importante dei pigmenti bianchi impiegati nella fabbricazione delle vernici.”

Titanio, Primo Levi
da “Il sistema periodico “

“Ho caricato la lavastoviglie, lavato a mano i bicchieri belli, riposto gli avanzi in frigo. E questo è il minimo sindacale. Ho anche lustrato i fornelli, svuotato lo scolapiatti, passato la spugnetta su marmi e piastrelle e, dopo aver accuratamente scopato, lavato per terra. E adesso, appoggiata allo stipite della porta, guardo la cucina illuminata solo dalla luce fioca sul fornello, e penso a Noemi, e a sua mamma, che diceva ogni tanto: “Ah, che soddisfazione quando la cucina è tutta a posto. Peccato che duri così poco!”
Ti capisco, Clelia Pontini mamma di Noemi Pontini, ti capisco adesso, in questo momento, appoggiata allo stipite della porta, mentre guardo questa cucina immacolata e provo un sentimento che non so definire. Gioia e struggimento insieme. Gistruggimento?
È una piccola felicità intima, intima come certe canzoni, come l’odore dei bambini piccoli o mettersi i calzini al mattino presto…
Lo sguardo scivola sul pavimento immacolato, gli spigoli dei pensili, il lavandino scintillante, neanche un bicchiere o un cucchiaino macchiato di nutella in giro, gli strofinacci appesi ai ganci, le tende bianche coi ricami al centro. Perfetta. È la mia cucina, ed è bella. Lo so, è una bellezza effimera e fuggitiva come quella di una rosa o di un fiocco di neve. Basta che uno di quelli di lá voglia un altro caffè, ed è fatta. Al massimo questa bellezza pacata durerà fino a domattina, poi la colazione la violerà con le briciole delle biscottate, le tazze sporche, le macchie di caffè sul fornello, perché non riesco mai a spegnere la moka prima che schizzi.
Ma adesso posso guardarla e riguardarla, e fissare l’incanto prima che sfiorisca o si sciolga. Mi sento in pace, ho pulito la cucina, un gesto inutile, ripetitivo, addirittura un po’ esagerato, perché lo Smac sui fornelli è stato un barocchismo, lo so.”

Stefania Bertola “Le cure della casa” Einaudi

Andrea Bajani, Il libro delle case, Feltrinelli

Non possiamo passare questo libro come se fosse un libro come gli altri. Appena uscito nelle librerie, questo libro di Andrea Bajani racconta la vita di un uomo attraverso le case che ha abitato. Case che raccontano la sua storia e che raccontano anche la storia del tempo che attraversa (c’è la Roma del rapimento di Aldo Moro e dell’assassinio di PierPaolo Pasolini). Le case – noi lo sosteniamo da sempre- trattengono ciò che siamo, ciò che siamo stati, ciò che siamo diventati.

Se volete intanto leggere il primo capitolo questo blog ve ne offre la possibilità: Le parole e le cose

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Potrei parlare per ore di questa casa, del giardino. Conosco tutto, so dove sono le vecchie porte, tutto, i muri dello stagno, tutte le piante, il posto di tutte le piante, conosco anche il posto delle piante selvatiche, tutto.

Marguerite Duras

E quando una casa così conosciuta per qualche motivo -anche lieto- si deve lasciare o trasformare? Si ha voglia di fermarne il ricordo. Allora noi vi proponiamo una possibilità: la creazione di un libro, che abbiamo chiamato “libro affettivo”, che raccoglie le immagini dei vostri “angoli del cuore” e che potrete sfogliare ogni volta che volete, e che farà parte della vostra storia. Guardate il paragrafo dedicato a questo tema nella home, alla voce libri affettivi: vi spieghiamo tutto!

sentirsiacasa

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photo by Alice Gao

“Sono fuori in giardino”, disse suo figlio, e Olive lo seguì attraverso uno spazioso soggiorno buio, in una piccola cucina ingombra di giocattoli, un seggiolone, una serie di zuppiere sparse sopra il bancone, scatole aperte di cereali e riso parboiled. Un calzino sudicio giaceva sul tavolo. E all’improvviso Olive ebbe la sensazione che tutte le case in cui si era trovata l’avessero sempre depressa, a eccezione della sua e di quella che avevano costruito per Christoper. Era come se non avesse mai superato la sensazione che doveva aver provato da bambina, quell’ipersensibilità verso l’odore estraneo delle case degli altri, la paura che rivestiva il modo poco familiare di chiudersi della porta di un bagno, lo scricchiolio delle scale consumate da impronte che fossero le proprie.

Elisabeth Strout “Olive Kitteridge”

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photo by Alice Gao

“Sono fuori in giardino”, disse suo figlio, e Olive lo seguì attraverso uno spazioso soggiorno buio, in una piccola cucina ingombra di giocattoli, un seggiolone, una serie di zuppiere sparse sopra il bancone, scatole aperte di cereali e riso parboiled. Un calzino sudicio giaceva sul tavolo. E all’improvviso Olive ebbe la sensazione che tutte le case in cui si era trovata l’avessero sempre depressa, a eccezione della sua e di quella che avevano costruito per Christoper. Era come se non avesse mai superato la sensazione che doveva aver provato da bambina, quell’ipersensibilità verso l’odore estraneo delle case degli altri, la paura che rivestiva il modo poco familiare di chiudersi della porta di un bagno, lo scricchiolio delle scale consumate da impronte che fossero le proprie.

Elisabeth Strout “Olive Kitteridge”

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Se la luce è nel tuo cuore, trova la via di casa.

Jalàluddin Rumi

imageLa casa -il luogo più amato e stabile nella nostra vita, lo spazio in cu pensiamo di poterci rifugiare e in cui costruire frammenti sicuri della nostra esistenza, la memoria più resistente in una quotidianità fatta di continui cambiamenti- é probabilmente il fenomeno su cui si sta meno riflettendo in questo primo quarto di nuovo secolo. Eppure, non c’è notizia che attraversiamo e viviamo che manchi di confrontarsi con questa parola così semplice e naturale. La casa mancata e miraggio per milioni di richiedenti asilo e migranti; la casa come bene rifugio, desiderio di borghesi e non, in tutto il mondo; la casa come scena del delitto, del male celato, delle nevrosi domestiche accolte nell’infinita serie di villette sparse per le periferie metropolitane; la casa come luogo politico in cui il privato si fa collettivo trasformandosi in un progetto nuovo. La casa é oggi uno dei luoghi universali da cui ripensare noi stessi e il mondo che abitiamo: é diventata, di fatto, un reale laboratorio di comprensione e trasformazione del mondo.

Luca Molinari

dalla introduzione al testo ” Le case che siamo” nottetempo edizioni

IMG_5482“Se gli edifici potessero parlare

alcuni parlerebbero come Shakespeare

altri come il Financial Times

altri ancora loderebbero Dio o Allah.

Altri sussurrerebbero soltanto.

Altri canterebbero a gran voce la loro gloria.

Mentre altri ancora mormorerebbero

modestamente poche parole

senza avere nulla da dire.

Alcuni sono semplicemente morti

E non parlano più”

Wim Wenders

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Nostra Signora del Disordine

Stiamo sempre a riempire e vuotare scatole
spostare i vestiti negli armadi
portare qualcosa in soffitta o in cantina

così sembra di traslocare di continuo
anche se viviamo nella stessa casa

tu non sei mai soddisfatta e io
non capisco non ti capisco più

abitare non vuol dire
che gli oggetti hanno ognuno il giusto posto
piuttosto
che dovremmo averlo noi

Francesco Tomeda da Portarsi avanti con gli addii